Una preparazione densa, intensa e profumata che non si lascia addomesticare: il panpepato non si reinventa, si rispetta
A Terni, quando arriva dicembre, la cucina profuma di miele, pepe, rum e fichi secchi. Non serve controllare il calendario, basta sentire l’aria. In Umbria, ma anche in altre zone del Centro Italia, il Natale si accende attorno a un dolce scuro e compatto, senza lievito, che non cresce ma matura col tempo: il panpepato. Questa ricetta è più di una tradizione.
È una sequenza di gesti lenti e misurati, che si tramanda, si custodisce e si modifica con rispetto. Ognuno ha la sua: c’è chi lo fa piccante, chi lo arricchisce con canditi, chi non ama l’uvetta e la sostituisce con altro. Il cuore resta sempre lo stesso: frutta secca, miele e cacao, miscelati a mano, senza macchine, in una ciotola che sa di famiglia. È il dolce dei Natali passati, quando si lavorava con quello che c’era, e tutto aveva un senso.
Frutta secca, miele e spezie: così nasce un dolce che non ha bisogno di moda né vetrine
Il panpepato non ha bisogno di essere fotografato per attirare l’attenzione. Non è lucido, non è ricoperto di glassa, non ha colori sgargianti. Ma basta un morso per capire che dentro c’è una storia che non ha mai smesso di esistere. La versione ternana parte da un impasto ricco: fichi secchi, noci, mandorle, nocciole, poi l’uvetta lasciata ad ammorbidire nel rum.
Si aggiunge il cioccolato fondente, rigorosamente al 55%, e poi la scorza d’arancia candita, che regala una nota agrumata nel mezzo del dolce. Il profumo arriva dal caffè, dalla cannella, dalla noce moscata e da un pizzico di pepe nero. Si mescola tutto a mano, con una certa fatica, e si impasta con cacao amaro, farina e un abbondante strato di miele millefiori. Nessun lievito, nessuna fretta. Il composto ottenuto è denso, appiccicoso, quasi ribelle. A quel punto, ci si unge le mani con un po’ d’olio d’oliva e si formano delle sfere grandi come un pugno.

Ogni pezzo pesa circa 130 grammi. Si adagiano su carta forno e si cuociono per 35 minuti a 160 gradi. Poi il riposo. Essenziale. Senza quello, il panpepato non è pronto. Deve stare almeno 4 ore a temperatura ambiente, meglio ancora una notte intera. Solo così gli aromi si sposano davvero. Ogni morso è una combinazione diversa: prima il fico, poi il cacao, poi una punta di pepe, e infine l’arancia. Non c’è una regola. Non ci dev’essere. Alcuni usano anche pinoli, altri pistacchi, c’è chi scioglie il cioccolato invece di tritarlo. Ogni famiglia fa il suo, e nessuno sbaglia.
Una ricetta che non cambia mai, ma che ognuno plasma con ciò che ha
Quello che colpisce, ogni anno, è che il panpepato non si dimentica. Magari si fa solo a Natale, ma appena lo assaggi ti torna tutto in mente. È un dolce che non ha bisogno di presentazioni, perché parla da solo. Ogni ingrediente ha un ruolo, e si sente. La mandorla tostata che scricchiola sotto i denti, il miele che lega tutto, il cioccolato che sporca le manimentre lo lavori. Il bello è che si può personalizzare.
Non si offende. Se non ti piace il rum, puoi usare brandy o mosto cotto. Se non vuoi il miele millefiori, puoi provare col miele di castagno, ma sappi che il gusto sarà più intenso, meno dolce. Anche le spezie si possono regolare. Più pepe? Più carattere. Meno cacao? Più delicatezza. Ma l’anima resta. Non serve congelarlo, basta una scatola di latta, e si conserva anche per due settimane.
Quando lo mangi, lo fai lentamente. Non è un dolce da addentare di fretta. Si taglia con un coltello, si offre con un bicchierino di vino dolce o un caffè amaro. Non si accompagna a nulla, è già completo così. C’è chi lo prepara alla vigilia e chi lo inizia a novembre, lasciandolo indurire un po’, come si faceva una volta. Non si rovina. Anzi, migliora. E quando, dopo giorni, ne tagli ancora un pezzetto, il profumo è sempre lì. Non cambia. Non va via. È un sapore che resta addosso, come una musica sentita da piccoli. E ogni Natale, quando lo rifai, non hai bisogno della ricetta scritta. Ti basta chiudere gli occhi.
